Dopo una lunga pausa, determinata da un cartellone tra il ripetitivo e il poco invogliante (De Filippo e Scarpetta in sequenza; due Pirandello in venti giorni; ovviamente Shakespeare ed il solito “Piccoli Crimini coniugali”) sono finalmente tornato a teatro per “La Torre d’avorio” del premio Oscar Ronald Harwood. Giudizio difficile da esprimere, nonostante l’indubbio interesse contenuto nel tema della pièce: a Berlino nel 1946 il celebre direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler viene convocato dai vincitori alleati per la sua presunta collaborazione con la dittatura nazista. A interrogarlo c’è un rozzo ufficiale americano, ossessionato dalle terribili immagini dei campi di sterminio, che ama la libertà e diffida della cultura. Credo che buona parte della mia indecisione dipenda dall’attore che impersona l’inquirente, Luca Zingaretti (anche regista) ormai indissolubilmente legato all’immagine televisiva del famoso commissario di Camilleri. Esercitando qui una funzione del tutto simile, l’identificazione se non sovrapposizione era inevitabile. Per di più, un personaggio di contorno in un breve momento è sembrato ricordare quell’agente pasticcione presente nei suddetti romanzi creando una sorta di corto circuito di cui forse la rappresentazione non ha beneficiato. Anche i personaggi mi sono sembrati un po’ stereotipati: l’inquirente, americano medio tutto pragmatismo e niente fronzoli intellettuali; l’altro ufficiale, ebreo di origine tedesca colto e sensibile che ammira il grande Artista e mal sopporta il ruvido trattamento che il maggiore Arnold/Zingaretti riserva ad un inizialmente ieratico Furtwängler, sommo Maestro idolatrato che in seguito assume una dimensione più umana, vessato da una nuova autorità che sostituisce il semplice disinteresse al terrore.
Va detto che la domanda alla base dell’opera, ossia se svolgere un’attività artistica sotto un regime infamante, e farlo in condizioni privilegiate, equivalga a collaborare non trova risposta. La motivazione addotta da Furtwängler, quella di aver voluto tener accesa la fiaccola dell’arte e della cultura, convinto che questa non avesse connotazione politica, oscilla tra naïveté e snobismo e non convince il nostro Montalbano d’oltre oceano. Quanto a me, ci sto ancora pensando.
Va detto che la domanda alla base dell’opera, ossia se svolgere un’attività artistica sotto un regime infamante, e farlo in condizioni privilegiate, equivalga a collaborare non trova risposta. La motivazione addotta da Furtwängler, quella di aver voluto tener accesa la fiaccola dell’arte e della cultura, convinto che questa non avesse connotazione politica, oscilla tra naïveté e snobismo e non convince il nostro Montalbano d’oltre oceano. Quanto a me, ci sto ancora pensando.
Commenti
Posta un commento